“L’italia non brucia!” annunciò senza nascondere la stizza il pilota britannico di un bombardiere che nell’agosto del 1943 bombardò Milano. No, l’Italia con i suoi viali ampi e le case fatte in pietra e mattoni non brucia. Brucia la Germania. La Germania e le sue vie strette e le case di legno bruciano, come ha bruciato Dresda e il suo olocausto, un crimine di guerra anglo-americano che la storia non riconosce.
Ha bruciato la Mannheim di legno, nel cuore produttivo della Germania, allora come adesso. Ma i tedeschi l’hanno ricostruita e come sempre accade in Germania, anche più forte di prima.
Mannheim è un quadrato tra il Reno e il Neckar, composto di tanti quadratini più piccoli individuabili da numeri e lettere disposti ordinatamente.
Innenstadtschema.
Per perderti a Mannheim devi essere analfabeta, ma non è il posto in cui vai per perderti. Mannheim lavora, è produttiva, a Mannheim si va per lavorare. Io ho fatto il contrario: non sono andata lì per lavorare e mi ci sono persa, pur non essendo analfabeta e sapendo perfettamente dove ero. Ho perso 10 anni in tre giorni a Mannheim, dormendo sul divano letto di una gemella, in un monolocale che mi ricordava tanto il mio di 5 anni fa a Bolzano, ma tenuto meglio.
Carl Benz è nato qui (e anche la prima automobile), e Friedrich Schiller pure (anche Steffi Graf, ma non fa lo stesso effetto). Si direbbe che non c’è molto da vedere a Mannheim, tutta concentrata nelle sue industrie meccaniche e chimiche: la Wasserturm e il castello di Friedrichsburg, che sarebbe baroccamente seicentesco, ma è così pulito e rinnovato che sembra sia stato finito ieri.
Ma tutto intorno c’è la Germania che lavora fianco a fianco con i suoi immigrati. Mentre scorrazzavo tra un quadrato e l’altro senza una meta precisa, ho mangiato una Schnitzler al Zentrale, dove una cameriera più bella della Jolie (giuro) aveva un sorriso contagioso. A mezzanotte ho mangiato un kebab ad Istanbul (dopo essere stata allontanata da un rooftop bar per via dei miei pantaloni con tre righe di troppo ai lati) e la sera successiva una zuppa asiatica che sembrava davvero come quelle mangiate in Asia, per poi finire in un locale da hipster ad importunare uno dei baristi (l’unico non hipster) che si vendicava spaccando il ghiaccio a un centimetro dalla mia faccia e facendo il vodka tonic usando un misero misurino: al terzo ero ancora completamente sobria, ma costava solo 5€.
Non ci sarà molto a Mannheim da vedere, ma ci sono i coniglietti che vagano per il parco, delle auto supercharged di colori improponibili in Italia e auto storiche. E’ affollata senza essere caotica, è gentile e sorridente e ti parla lingua che gli parli tu, è una città universitaria e lavoratrice dove arriva la gente che ha voglia di darsi da fare e concludere qualcosa, è viva, grigia di cemento e verde di parchi lungo i fiumi dove il weekend passeggi e guardi le chiatte e le gru in lontananza.
Ho perso 10 anni a Mannheim, che ti mette voglia di fare qualcosa e non stare a pensare che sei già arrivato dove avevi progettato di essere. Ti contagia di idee e di progetti, di influenze e di storie, anche se la sua è stata rasa al suolo.