Con un volo appena comprato per l’Argentina non c’è special guest migliore per questo mercoledì che Eleonora che torna a trovarci per farci proseguire il viaggio con lei a metà tra l’onirico e il tangibile a ridosso del mare. Buona lettura viaggiatori!
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Tutte le strade portano al mare…argentino!
Politicamente, queste acque appartengono allo Stato, come tutto il resto, d’altronde: la moneta e la benzina estratta da quei pozzi di petrolio che avevamo attraversato in piena Pampa all’inizio del viaggio, entrambi segni del protezionismo che ha salvato gli argentini dall’ultimo crack economico del 2001, per la gioia del mio bancomat che lontano da Buenos Aires non è in grado di farmi prelevare neppure un Peso.
Queste acque le abbiamo raggiunte dopo quasi mille chilometri filati di deserto del Chubut, spaccando a metà la parte nord della regione patagonica.
Dopo una notte passata a Paso de los Indios, dopo uno stomaco in subbuglio difficilmente gestibile quando le stazioni di servizio si facevano sempre più rade. Sopravvissuti, divertiti, aspettavamo di spogliarci e goderci la spiaggia, lasciandoci indietro la neve della cordigliera che ci separava appena dal Cile. Invece, anche sulla costa Est, la temperatura continuava a non superare i 20 gradi e l’orizzonte si confondeva fra cielo e mare per quanto fosse lattiginoso, pallido come i nostri volti.
Abbiamo piantato la tenda per l’ultima volta nell’ultimo camping, l’unico di tutta Puerto Piramides, nel cuore della meravigliosa riserva naturale della Peninsula de Valdès. Qui, ad Ottobre e Novembre, è possibile osservare il passaggio di orche e balene che vengono a partorire. Era fine gennaio, mi sono dovuta accontentare di guardarle in cartolina in un chiosco dove compro il souvenir più esilarante di tutto il viaggio: un libricino scritto in inglese che spiegava tutte le stranezze del castigliano argentino, ovvero il rioplatense.
Ho investito così, senza esitazione alcuna, gli ultimi contanti. Si intitolava ¡Che boludo!, intercalare (traducibile con un dialetto italiano meridionale “we, compare”) che avevo avuto modo di apprezzare all’ennesima potenza dalle nostre vicine di tenda. Ernesto Guevara detto il Che, appunto, è conosciuto come tale proprio per questo motivo.
Le nenas, tamarre come poche, ascoltavano cumbia (musica da balli di gruppo tipo bachata) a tutto volume sorseggiando un bicchiere di Fernet e Cola (drink tipico argentino) alle 8 del mattino. Per noi andava bene il latte freddo al cioccolato, unica bevanda con cui abbiamo tradito l’inseparabile mate, e due “pastas” appena sfornate.
Ci siamo seduti sulla sabbia umida, stretti nelle felpe, e ci siamo messi a guardare un giovane surfista che cade nelle onde. Poi una breve escursione sui costoni a picco sul mare mi ha fatto scoprire la natura di quelle roccia, colme di conchiglie incastonate, come se fossero un pane farcito.
La sabbia sembrava impermeabile.
Nel pomeriggio il paesaggio è cambiato. Il sole ha cominciato a friggere.Il vento non si placava, quattro uomini a cavallo inseguivano la schiuma a pelo d’acqua e io mi sentivo in un film.
Un cane randagio passeggiava con la spensieratezza di un umano.
Bisogna avere fortuna anche per capitare in un posto giusto come questo, così perfetto per vagabondare.